

Le forme dell’India: un libro di Silvio Grocchetti che racconta questo Paese attraverso la vita, la morte e le sue contraddizioni. Intervista all’autore.
Un libro che porta direttamente in India, in perfetto stile Exploreading, che fa scoprire storie meravigliose e dettagli che lasciano l’amaro in bocca. Vi porto a scoprire Le forme dell’India tra parole e due chiacchiere con l’autore.
Il libro Le forme dell’India
Questo non è il racconto di un viaggio in India, perché in India non si viaggia. Si precipita. […] Questo non è il diario di un viaggio sentimentale, perché non c’è niente di sentimentale in un paese dove «le mucche sono molto, molto più al sicuro delle donne».
Alessandro Cassinis
Le forme dell’India di Silvio Grocchetti, però, non è neanche una guida, perché ogni spostamento, ogni passaggio è raccontato attraverso incontri e sensazioni, pensieri e non informazioni pratiche. La risposta arriva dalla prefazione-non-prefazione di Alessandro Cassinis: “questo libro è giornalismo narrativo“.
La grandissima proprietà di linguaggio di Silvio prende per mano il lettore e lo fa precipitare in India insieme a lui. Gli fa incontrare gli occhi di esseri umani che vivono e, in qualche modo, sono la povertà con la P maiuscola. Occhi che, non importa se appartengono a un bambino di dieci anni con i palmi incollati a un finestrino di un taxi o all’ometto indiano con il quale si è appena condiviso un viaggio di più di otto ore, in ogni caso superano ogni barriera linguistica. E fanno venire il magone.

Tra le pagine si incontrano persone come Cedric, che vive la sua vita parlando di diabete e di Dio, e Shahbaz, che spera di incontrare nuovamente Silvio nell’aldilà, perché sa che nella vita terrena non sarà possibile.
E poi si incontrano luoghi, come Varanasi, dove le persone vanno a morire, e il paese di Dharhara, dove ogni volta che nasce una bambina vengono piantati alberi di mango affinché, con il denaro ricavato dalla vendita dei frutti, lei possa pagarsi gli studi e la dote. Un raggio di luce in un Paese dove i feticidi femminili hanno raggiunto quota 12 milioni in trent’anni.
È questa l’India che si scopre attraverso questo libro: nuda e cruda, fatta di odori, di usanze e di persone. Una lettura che spinge a riflettere in modo quasi invadente, ma necessario.
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Intervista a Silvio Grocchetti
Ho avuto la possibilità di intervistare Silvio e ci tengo a ringraziarlo ancora una volta per questa opportunità. Durante la lettura di Le forme dell’India sono sorte alcune domande e poter avere delle risposte direttamente dall’autore, senza limitarmi a immaginarle o senza lasciarle vagare a vuoto, è stata sicuramente una splendida opportunità.

◆ Vorrei iniziare ponendoti la stessa domanda che ti è stata posta dal viaggiatore sul treno: perché l’India? All’interno del libro non spieghi perché hai deciso di compiere questo viaggio, o meglio, da dove e come è partita l’idea, anche se si può immaginare. È una ricerca di informazioni e di risposte che è nata spontaneamente da te, ti è stato commissionato un articolo o un progetto o magari qualcos’altro?
Partendo dal presupposto che ho sempre avuto una certa fascinazione per l’India e ricercavo qualche pretesto per andarci, il viaggio ha avuto una doppia genesi. Da un lato avevo letto della storia del villaggio di Dharhara e, rimastone colpito, avevo pensato di raccontarla: ho proposto il progetto e ricevuto una borsa di studio.
Contemporaneamente dovevo fare uno stage lavorativo in una redazione giornalistica a Mumbai. Ho quindi cercato di unire le due cose e ne è uscito il viaggio dall’est indiano – il Bihar, dove si trova Dharhara – alla costa ovest, a Mumbai.

◆ Citando alcune righe del primo capitolo, le stesse che hanno ispirato il titolo del libro, se non ho capito male, tu scrivi:
“La mia mente, inizio a intuire, è armata delle sole forme fatte a immagine e somiglianza dell’ambiente in cui sono cresciuto, attraverso le quali posso inquadrare dinamiche sociali e culturali più o meno complesse, così da destrutturarle e comprenderne gli elementi costitutivi, ma pure sempre derivanti da logiche comuni: comuni in Occidente. Forme, in sostanza, occidentali, occidentalizzate e occidentalizzanti. Invece […] capisco che le forme necessarie per inquadrare ciò che mi vortica attorno non sono quelle di cui dispongo; non è un problema di quantità o qualità, capisco, ma di forma”.
Come è cambiato, se è cambiato, il tuo modo di pensare da quando sei stato in India? È forse più fluido o trovi ancora difficoltà a passare da una forma all’altra, se così vogliamo dire?
Il discorso delle “forme di pensiero” e di inquadramento della realtà riguarda fondamentalmente i filtri attraverso cui guardiamo la vita e i suoi avvenimenti, e sono filtri sociali, di educazione, e in quanto tali, credo, semipermanenti. Quando nasci in una certa area geografica, concepisci le istanze sociali del tuo micromondo come universali e, assorbite giorno dopo giorno, la coscienza viene ineludibilmente plasmata in quelle forme: forme appunto di un micromondo, sia geografico che temporale.
Quello che cerco di trasmettere nel libro è l’incapacità del viaggiatore occidentale di comprendere la cultura altra che ha di fronte, o quantomeno l’estrema limitatezza che ha nel farlo, perché ogni osservazione effettuata origina immancabilmente dal proprio territorio culturale d’origine, ed è dunque deficitaria in partenza. Quello che si può cercare di fare è spogliarsi delle proprie istanze e lasciarsi inglobare nella nuova cultura, tentando così, pezzetto per pezzetto, di capirla. Ed è una sorta di atto di fede, perché mettersi a nudo significa abbassare anche le proprie difese, e dunque accettare una nuova vulnerabilità. Ritrovare una sorta di unione atavica con il prossimo, da animale ad animale.
Questo volontario slancio alla limitazione e all’incasellamento del pensiero a finalità autodifensiva è naturalmente intrinseca all’uomo: la viviamo quotidianamente in molti ambiti (vedi ad esempio la religione) ma diventa lampante quando ci si immerge in carne ed ossa in una cultura diversa. Ecco perché la fertilità del viaggiare: creare dubbi, mettere in discussione.

◆ E a proposito di questo tema, un aspetto che mi ha colpito molto è il comportamento di Abhay, il tuo contatto a Bhagalpur, che, per chi non ha letto Le forme dell’India, è un documentarista socialmente impegnato per i diritti delle donne. Tu stesso noti una gerarchizzazione marcata all’interno della sua casa e nel rapporto tra lui, la madre e la sorella, e ti chiedi “Come può colui che richiede la parità dei sessi praticare tali istanze stantie e dispotiche all’interno delle proprie mura?”. Ti sei più dato una risposta a questa domanda o è forse una situazione troppo complicata da risolvere per chi è cresciuto con “forme occidentali”?
Col senno di poi, credo che la figura di Abhay sia emblema della tragicità dell’uomo, e cioè il fatto che chiunque è luci e ombre, qualità e difetti, e che è una semplificazione qualsiasi tipo di incasellamento nella categoria Bene o Male. Parlo di tragicità perché sarebbe molto più semplice un mondo dove il bene e il male sono manifestazioni pure, estreme; richiederebbe molta meno fatica di approccio e comprensione.
Leggendo il libro, penso sia facile condannare Abhay: appare un ipocrita, un uomo che predica bene e razzola molto male. La realtà è, pero, molto più complicata di così, perché si inserisce nel contesto culturale: cioè che tutti, sia Abhay quanto le donne della sua famiglia, sono stati cresciuti secondo queste dinamiche sociali.
Per noi è facile parlare (soprattutto) e praticare (un po’ meno) la parità dei sessi: siamo cresciuti con questi insegnamenti. Ma come deve essere per coloro nati in altre istanze? E come queste istanze vengono vissute nei rapporti tra le persone stesse? Lungi da me giustificare Abhay, anzi. Ti confido infatti che dopo il tempo trascorso assieme ho avuto serie difficoltà a mantenere un rapporto, proprio per quello cui avevo testimoniato. Però, non riesco nemmeno a biasimarlo del tutto: anche lui è luci e ombre. D’altronde anche noi stessi, qui in Italia, in Europa, mettiamo in pratica una marea di istanze di disparità, solo che ci siamo abituati, fanno parte della nostra cultura, e ci passiamo sopra. Penso abbia ragione Cassinis quando nella prefazione scrive: “se tu scruterai a lungo nell’abisso dell’India, anche l’India scruterà dentro di te.”

◆ La prefazione-non-prefazione scritta da Alessandro Cassinis è anticipata da una mappa dell’India con tracciato il tuo percorso dal Bihar a Mumbai. Un viaggio molto lungo che, però, è raccontato in poco più di duecento pagine. Hai in mente un altro libro o tutto ciò che volevi dire l’hai già raccontato e non è necessario usare altre parole?
Ti rispondo utilizzando una battuta di una mia amica: “Non basta fare un viaggio per scrivere un libro di viaggio; se no, quest’estate scriviamo un libro sulla vacanza a Rimini”. Questo per dire che c’è la tendenza a scrivere libri di viaggio autocelebrativi che giustificano la loro esistenza nel solo fatto di viaggiare, di prendere un treno o un aereo e arrivare in un luogo altro.
Nella stesura del libro ho cercato di non includere il superfluo, inteso come ciò che riguarda solo me, e di scrivere un libro in cui il protagonista è l’India – o frammenti di essa – mentre il viaggiatore è sullo sfondo.
Ti confido che non avevo in programma di scrivere un libro; solamente una volta tornato in Europa mi sono reso conto che avevo raccolto materiale ed esperienze tali da poter interessare il lettore. Quindi, per rispondere alla domanda, il materiale che è rimasto fuori non credo sia di interesse del lettore.

◆ Eventualmente, c’è un aneddoto o un racconto che, con il senno di poi, avresti voluto inserire ne Le forme dell’India e che ora vuoi condividere qui?
La prima cosa che mi viene in mente è la banchina di una stazione nella zona nord di Mumbai: un acciottolato che si restringe per una trentina di metri, sino a passarci a stento, prima di sbucare in un quartiere di uffici della metropoli. Nel punto di restrizione, sui lati, oltre ad una inferriata, ogni mattina si osservavano centinaia e centinaia di corpi stravaccati a terra, e il rumore dei passi in un acquitrino melmoso faceva da sottofondo alla processione in fila indiana.
Ricordo come la prima volta che ci sono passato mi sia venuto un conato di vomito: e poi tutte le mattine, per due mesi. Lo ricordo perché si è accompagnato alla consapevolezza di cosa sia la puzza: non un odore sgradevole, ma un miasma talmente putrido e invadente da generare nell’organismo una risposta viscerale non controllabile. Ricordo un certo sgomento nel realizzare la scoperta della puzza a 25 anni, e il confronto con l’uso del termine che ne facciamo in occidente.

◆ All’inizio del libro mi sono chiesta più volte perché avessi scelto di iniziare il tuo viaggio proprio dal Bihar, una regione a nord del Paese dove, come scrivi anche tu, sembri essere l’unico straniero. Poi andando avanti con la lettura la risposta arriva. Non voglio dire qual è, ma voglio farti una domanda pratica. Come hai organizzato il tuo viaggio in una zona così poco turistica del Paese e dove hai trovato le informazioni delle quali avevi bisogno?
A dire il vero la mia organizzazione ha lasciato molto a desiderare; avevo un contatto, Abhay, e senza troppo pensarci mi sono totalmente affidato a lui per la mia permanenza nel Bihar. Questa scarsa organizzazione si è in realtà trasformata in un’opportunità, perché mi ha permesso di vivere quello che nel libro è il primo capitolo, “Il Viaggio”, cioè l’avventura nella prima notte indiana su stradine colleganti Patna a Bhagalpur, con un autista che non parlava inglese, senza essere ben sicuro di quello che stava accadendo. È stato un primo impatto con l’India piuttosto violento proprio a causa di un’organizzazione lacunosa.
Per il resto del viaggio, mi sono basato su tre cose: Lonely Planet, web e improvvisazione.

◆ Quali consigli daresti a chi vuole compiere un viaggio simile al tuo anche se, magari, con uno scopo ben diverso e, se vogliamo, puramente turistico?
Per un viaggio prettamente turistico ho poco da consigliare; ci sono già fonti molto più autorevoli e ricche da consultare. Per chi, invece, vuole un viaggio un po’ meno turistico, che si conforma più con un’esperienza culturale, consiglio quello che, secondo me, è il presupposto fondamentale, cioè la solitudine. Solitudine che appare inizialmente come assenza, ma che man mano che si viaggia si riconosce essere spazio da riempire.
Come dicevo prima, solamente porsi in una posizione di nudità, di vulnerabilità, di stacco netto con l’abitudine permette di accogliere pienamente ciò che si presenta.
◆ Nel libro citi la Lonely Planet e Un’idea dell’India di Alberto Moravia, ci sono altre letture che consigli a chi sta organizzando un viaggio in India o vuole anche solo scoprirla attraverso le pagine?
Io partirei da due classici che consentono un approccio all’India da due prospettive opposte, nonostante siano il resoconto dello stesso viaggio: Un’idea dell’India di Moravia e L’odore dell’India di Pasolini. Due libri complementari, che permettono un primo impatto con l’india sia da un punto di vista più didattico e organico con Moravia, che viscerale ed emotivo con Pasolini.


Conoscevate il libro Le forme dell’India di Silvio Grocchetti? Vi piacerebbe leggerlo? Lasciate un commento🙂

Silvio Grocchetti nasce a Genova nel 1991 e vive tra la città natale ed Edimburgo. Ha contribuito a varie testate giornalistiche nazionali e straniere, prediligendo la carta stampata a qualsiasi altro mezzo di comunicazione.
Combina lo studio di materie umanistiche e scientifiche, focalizzandosi al momento prevalentemente sulle seconde.
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Ringrazio Alpine Studio Editore per avermi inviato il libro Le forme dell’India (che rientra nella collana “Orizzonti”) e per avermi fatto conoscere la sua storia.
Le foto dell’India sono state gentilmente fornite dall’autore, le altre sono state scattate con una Canon 1100D*.